tre racconti su Leopardi e Napoli
€ 6.00
Autore: Gigi Monello
ISBN 978-88-902371-3-3
Da una parte la Napoli ottocentesca, impasto di riti del cibo e devozione ai santi, bordelli e tabernacoli; luogo ove tutto si incrocia: mare, malattia, camorra, sudiciume, leggi; grumo denso e insondabile; pulsare misterioso. Dall'altra lui, il piccolo conte gobbo, l'erudito, la mente più acuta del secolo. Incontro fatale e paradossale, occasione di un'ambigua partita tra festosità ignara della plebe e lucido argomentare del filosofo; intenta, l'una, a vivere la vita, l'altro a mostrare come essa danzi insensata sull'orlo di un fosso, di cui la luce ci oscura la vertigine.
COMMENTI
Abbiamo visto il film di Martone e ne abbiamo ammirato il rigore formale, la studiata ricostruzione d’ambiente, la dicotomia tra sublime poetico e miseria fisica, tra l’isolamento del natìo borgo selvaggio e la frenetica corrispondenza con l’Accademia. Un film ambientato per quadri in quattro luoghi diversi: Recanati, Firenze, Roma e infine Napoli, dove il regista gioca in casa e cerca di interpretare l’impatto del poeta con una città per lui diversa e affascinante, in una specie di vertigine che spazia dal magma umano a quello della lava vesuviana. Ebbene, nel 2007 era apparso un piccolo libro di appena 45 pagine edito da Scepsi & Mattana, un piccolo ma coraggioso editore di Cagliari: La luce nel fosso. Tre racconti su Leopardi a Napoli, scritto da Gigi Monello, peraltro autore di altre piccole, preziose opere pubblicate dallo stesso editore (1). Curiosa opera, articolata in tre racconti: Il segreto del cielo di giorno, La strana notte del poeta, Un americano nel golfo. Più che più che nei Canti si pesca nelle Operette morali, nello Zibaldone e persino nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, in una curiosa, manieristica sintesi. Nel primo parla il medico personale del conte Leopardi. Il suo paziente è indisciplinato: mangia in modo sregolato, dorme troppo ed esce poco. Il medico dunque lo convince a fare con lui una passeggiata al sole in carrozza e questa è l’occasione per discutere sulla vita e la morte. Aleggia la minaccia del cholera, di cui neanche il medico conosce la vera natura, mentre il popolo festoso e lazzarone sembra non curarsene, intento a mangiare con avidità qualsiasi cibo. In realtà è una reazione istintiva alla morte e alla precarietà dell’esistenza, e di questo infatti discettano i nostri. Come si concilia il sole del Mediterraneo con l’incombente epidemia, che magari sarà sostituita da un’altra in futuro? Napoli ha vissuto il colera persino nel 1973 e sempre per gli stessi motivi. Per il conte Giacomo l’unica spiegazione è in un Creatore crudele che illude un’umanità, la quale preferisce vivere alla giornata, per incoscienza o consapevolezza. Non sapendo come rispondere, il medico suggerisce un curioso rimedio all’angoscia: il collezionismo. E qui vien introdotto un personaggio forse anche esistito: Beniamino ‘o mortale, un giovane bello e ricco che, una volta vecchio e solo, colleziona funerali, più preciso e sistematico di un necroforo. Di ognuno voleva sapere il modo in cui era morto, ma lui morì in un modo diverso da tutti gli altri. Commento del poeta: “ … in verità viviamo in un universo spalancato, un freddo dirupo sfondato; e chi vuole sognare, sogni pure … Tanto la notte tornerà, e il cielo ci sembrerà di nuovo una domanda, e il mondo la maschera di ciò che non sappiamo.” La strana notte del poeta ci porta invece nell’atmosfera descritta anche da Saverio Martone, ma senza scadere nel presepe napoletano. La voce narrante è quella di un anonimo corrispondente di un giornale italiano, estraneo alla città, che scopre quasi per caso dove è morto Leopardi. In città è anche lui è uno straniero, per cui si dà da fare e vien dunque condotto dal Professore, memoria storica del quartiere. Come non pensare a Eduardo ne L’oro di Napoli? Il nostro è incuriosito dalle voci sulle strane abitudini del conte Leopardi, il quale amava effettivamente infilarsi di notte nel ventre molle della città – qui sappiamo che pagava anche un guardaspalle – per quanto di giorno poco amava i solari intellettuali partenopei con cui polemizzava ai tavolini dei caffè. Già, ma cosa cercava Leopardi? Non i bordelli – troppo facile – né emozioni forti come certi borghesi; il suo è più un viaggio dantesco in un mondo che oggi è riuscito a rendere visibile solo il fotografo Salgado: carnalità, impasto di riti del cibo e devozione ai santi, bordelli e tabernacoli; luogo ove tutto s’incrocia: mare, malattia, camorra, sudiciume, leggi; grumo denso e insondabile; pulsare misterioso. Ma non c’è la repulsione di Conrad in Tifone, dove il magma umano dei braccianti cinesi ammassati nella stiva fa solo paura. Qui l’incontro tra il poeta e Napoli è un incontro fatale e paradossale, ambiguo e necessario. Dopo Leopardi, solo Guglielmo Marconi ha capito che per comunicare con l’etere non basta un’antenna, ma bisogna anche fissare una buona presa di terra. Ma resta il distacco dell’osservatore, l’ambigua partita tra festosità ignara della plebe e lucido argomentare del filosofo; intenta, l'una, a vivere la vita, l'altro a mostrare come essa danzi insensata sull'orlo di un fosso, di cui la luce ci oscura la vertigine. E il Professore cosa dice? “Ateo o materialista? Peggio ancora, era scettico". L’ultimo racconto ci porta a ridosso della seconda Guerra Mondiale, dove l’interlocutore di turno è Burt, un biologo marino americano incuriosito da Leopardi e ben presto suo entusiasta ammiratore. Sono divertenti pagine piene di domande che quest’atletico ragazzone pone al suo collega napoletano: per lui Leopardi è un genio, anche se poco ne capisce della sua filosofia. Ama però i contrasti, di cui l’Italia è comunque piena. Ma la conversazione trova il suo fulcro a bordo di un battello, dove un anziano marinaio trasporta i nostri scienziati in zona. Monumenti per i morti? A che servono? Quel fondo marino è pieno di camorristi fatti sparire nelle guerre tra bande. Sapremo solo alla fine che uno di loro – don Vito - lo ha ucciso proprio il barcaiolo per vendicare un’offesa. Da quel momento l’equilibrio nervoso dell’americano s’incrina, appena corretto dall’alcool. Viviamo in un mondo senza regole oppure esistono e non le conosciamo tutte? La domanda rimane inevasa: la voce narrante ci informa che Burt è morto nel 1945 nella guerra del Pacifico.
Tre racconti su Leopardi e Napoli - Da una parte la Napoli ottocentesca, impasto di riti del cibo e devozione ai santi, bordelli e tabernacoli; luogo ove tutto si incrocia: mare, malattia, camorra, sudiciume, leggi; grumo denso e insondabile; pulsare misterioso. Dall’altra lui, il piccolo conte gobbo, l’erudito, la mente più acuta del secolo. Incontro fatale e paradossale, occasione di un’ambigua partita tra festosità ignara della plebe e lucido argomentare del filosofo; intenta, l’una, a vivere la vita, l’altro a mostrare come essa danzi insensata sull’orlo di un fosso, di cui la luce ci oscura la vertigine. Gigi Monello Copertina di La luce nel Fosso Leopardi. Ritratto di città con un poeta È paradossale e sottilmente crudele la fine di un grande poeta e pensatore come Leopardi. Lui, filosofo del nulla, viene a morire in una città solare e pagana, che sembra prendersi gioco della sua disperazione. Un incontro fatale che nessuno sa davvero perchè sia avvenuto e quale cortocirtuito abbia prodotto. «Napoli l’attraeva come il sole attrae il pianeta» scrisse Antonio Ranieri nel suo Sette anni di sodalizio. l’unica fonte di documentazione da cui possiamo attingere. Solo ed eternamente deambulante per vie e vicoli, attento osservatore di una umanità pulsante e ignara di sè, il genio malato assorbiva suoni, colori e umori come una spugna. «Quando tentavo una spiegazione più approfondita dei suoi mali, Leopardi mi elargiva un sorrisetto da sfinge, tutto risolto in una smorfietta all’angolo della bocca». Tre mesi dopo la morte, è il 1837, il suo medico ne ricorda l’erudizione e l’intrattabilità, e una passeggiata a due da Capodimonte a Toledo, chiacchierando della gente e della vita, del colera incombente e di Dio, dei cocomeri dolci e di un tale Beniamino che aveva una curiosità morbosa per le malattie altrui. Il racconto si chiude con il vociare festoso di un gruppo di ragazzi che si tuffa dagli scogli. «Non ho mai fatto un bagno di mare» dice all’improvviso il Conte Giacomo. Pochi tratti bastano a Gigi Monello, cagliaritano, professore di filosofia, per disegnare sulla pagina un Leopardi vivissimo e a tratti affascinante nella sua scontrosità. Il brano s’intitola Il segreto del cielo di giorno e fa parte di una piccola raccolta narrativa, La luce nel fosso (Scepsi & Mattana editori, pagg. 48, 6 euro). «Tre racconti su Leopardi e Napoli», come recita il sottotitolo, e anche qualcosa di più: un ritratto inconsueto della città attraversata da diverse congiunture storiche. Su Napoli si posano direttamente gli occhi di Leopardi, subito dopo quelli di un giornalista che, inviato in città per l’inaugurazione della Galleria, riscopre luoghi e memorie leopardiane grazie a un vecchio professore (La strana notte del poeta); infine (Un americano nel golfo) quelli di una coppia di biologi marini, di cui uno americano, che assistono alla traslazione della salma del poeta al Parco Virgiliano, prima che la bufera della guerra separi i due amici. Sono storie minime che Monello, studioso appassionato, è riuscito a riempire di un’intima verità, lavorando sulla scrittura «per via di levare», con un’attenzione bilanciata tra la quotidianità minuta e la complessità di questa figura poetica così centrale nella nostra storia letteraria. Bastano poche pagine per rendere alla perfezione l’ambiguo rapporto oscillante tra seduzione e ripugnanza che finì per inchiodare Leopardi alla città. È una perfetta mimesi riuscita ultimamente solo ad un altro autore, Antonio Napolitano, che nel suo Leopardi - Taccuino napoletano, pubblicato dall’Istituto culturale del Mezzogiorno di Antonio Filippetti (pagg. 94, 15 euro), con lavoro certosino è riuscito a rendere più veri del vero gli appunti immaginari che egli ipotizza di aver ritrovato casualmente nella casa napoletana di vico Pero. Le varie annotazioni, quasi-parafrasi di brani di corrispondenza e dello Zibaldone, risultano di tale sorprendente verosimiglianza da costituire una sorta di lettura parallela di grande compiutezza. Siamo insomma di fronte a due veri «falsi d’autore», e sommamente utili. Da entrambi i testi arriva infatti la conferma dell’assoluta lungimiranza storica delle riflessioni leopardiane sulla città e sul suo destino. Un tema forte che varrebbe la pena di mettere al centro di tanti dibattiti, oggi più che mai. Santa Di Salvo, “Il Mattino” di Napoli, 17. 2. 2008
Mi è accaduto recentemente di leggere i Tre racconti su Leopardi e Napoli inclusi nel suddetto libro di Gigi Monello. Ora non posso che congratularmi con l’autore per lo spessore dei suoi strumenti espressivi ben attivi nelle narrazioni in oggetto. Nel primo racconto, Il segreto del cielo di giorno, a parlare in prima persona è il dottor Mannella (che sino alla fine ebbe in cura Giacomo Leopardi) con perspicacia e forte di quello che oggi diremmo un approccio olistico nell’avvicinarsi all’illustre malato. Mannella propone un bel giorno al “Conte” di accompagnarlo a piedi fino a casa per prestargli un libro che aveva incuriosito Leopardi; essi hanno pertanto sotto gli occhi, da Capodimonte a Toledo, la visione di una plebe felicemente immersa nella sua prima ragion di vita: quella di mangiare; “pane, cocomero e cozze”, “sotto un sole accecante”, tra fogne e immondezza”; e dunque nelle condizioni ideali per favorire, come poi di fatto avvenne, l’epidemia di “cholera”. Parlavo prima dello spessore narrativo di Monello; eloquente mi sembra la seguente obiezione del Recanatese al medico nel racconto in questione: “E chi dice a voi che tra cent’anni non spunti fuori una nuova malattia, che vi ammazzi mezzo genere umano, riaprendovi la partita all’infinito? No, io non vedo alcuna ragione per escludere che l’universo sia in mano ad una forza sporca, un che di oscuro, che ami più la distruzione che l’esserci delle cose…”. Non meccanicamente, bensì con levità credo qui sottesi al suindicato passo i versi leopardiani di A SE STESSO: “…Al gener nostro il fato/ non donò che il morire. Omai disprezza/ te, la natura, il brutto/ poter che, ascoso, a comun danno impera,/ e l’infinita vanità del tutto”(12-16). Esempio rilevante, quello appena evidenziato, della sedimentazione di un ipertesto nel sostrato di una narrazione consapevole e fluida. Ma è nel secondo dei tre racconti, intitolato La strana notte del poeta, che Monello offre a parer mio il meglio di sé in questa sua immersione narrativa riferita agli ultimi anni di vita di Leopardi a Napoli. Il parlante è infatti un giornalista partito in treno da Bologna per recarsi nella città partenopea in occasione dell’ “apertura in pompa magna della Galleria, il fiore all’occhiello del risanamento, la prova provata che Napoli non era da meno di Milano”. Non è difficile naturalmente individuare nel protagonista del racconto uno schietto alter ego di Gigi Monello; qui nelle vesti di un acuto e partecipe flâneur che a Napoli coglie subito “la violenza del contrasto”, “la lotta tra pieno e vuoto”. Bello è poi in effetti questo attacco nella seconda pagina del racconto: “Ripresi allora il filo del mio discorso intimo con il luogo”; ossia col genius loci, in tutta evidenza. Ebbene, nell’ andare “a Capodimonte, la parte più alta della città” il nostro giornalista comincia a fare i conti con Leopardi, in quanto il cocchiere gli indica la casa dove aveva chiuso gli occhi il grande poeta. Da qui a poco l’incontro con “u’ prufessore Brando”, studioso di “cose napoletane” e gran conoscitore del Recanatese; personaggio ambiguo, esercitante nei confronti del protagonista una sorta di psicagogia: “Sapete che differenza c’è tra Napoli e Leopardi? Ve la dico ma voi non dimenticatela più: lui è scettico, non trova nel mondo nessun senso. Napoli pure è scettica, e glieli dà tutti i sensi, al mondo, tutti quelli possibili e immaginabili”. Il nostro giornalista dopo tale incontro è indotto più che mai a “guardare ancora Napoli”; così come doveva aver fatto prima di lui Leopardi, anche di notte “per sentire meglio questa città che amava e detestava, per immergersi meglio in questo sonno di tutti. Chissà? Forse è proprio vero che ci attrae ciò che a parole biasimiamo”. In medio stat virtus direi, a proposito di questo secondo racconto del libro di Monello; con riferimento alla profondità dello sguardo prospettico del narratore, capace di far aleggiare lo spirito leopardiano (avvalendosi al meglio di uno strutturale passato prossimo). Con il terzo e ultimo racconto dal titolo Un americano nel golfo, ci allontaniamo a mio avviso forse troppo dal grande Recanatese; a parte la persuasiva rievocazione della traslazione presso il Parco Virgiliano della spoglia (in corsivo per ovvi motivi) di Leopardi al tempo del regime. Rimarchevole comunque il dialogo fra l’americano Burt e l’io narrativo di nome Sante; entrambi biologi marini a Napoli alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale: “ Già, sembra questa la regola, tutto ciò che è materia deve rompersi prima o poi, e sempre per via di altra materia che gli casca addosso. E’ tutto un generale prendersi a spinte, urtarsi, farsi del male, questo universo”…; come non ripensare al riguardo allo stupendo passo dello ZIBALDONE laddove Leopardi focalizza quanto accade in un famigerato giardino (4175-77; Bologna, 22 Aprile 1826)? Complessivamente il libro di Gigi Monello –in veste editoriale fascinosamente antica– rimane un suggestivo nonché sorvegliato omaggio narrativo a Giacomo Leopardi. Di Monello, docente e viaggiatore, sarà il caso di ricordare -sempre per Scepsi & Mattana Editori- un romanzo storico come Le conchiglie a Monte Mario (Un doppio enigma nella Roma di Pio IX), 2009; e, più recente, Il principe e il suo sicario. Come Cesare Borgia tolse dal mondo Astorre Manfredi, 2014. Andrea Mariotti, Gennaio 2016 http://www.andreamariotti.it/wordpress/?p=4952
Ho letto questo libro due anni fa ed era stupendo nella sua essenzialità. Ora che è uscito il film di Martone ne approfitto per farne una bella recensione
"Vorremmo sapere,e c'è il mistero. Vorremmo essere felici, e c'è il male.No, non c'è proprio senso alcuno in questo mondo".Pagine intense e avvolgenti quelle dei tre racconti che ci consegnano un Leopardi tenero,schietto, malinconico, della malinconia diventata leggera,senza asprezze,spigolosità.Un uomo oltre che un genio. Colpiscono e frastornano le immagini suggestive, le scene rese quasi palpabili. Ogni particolare, ogni dettaglio sia esso un suono,una voce, un colore,o un profumo, nulla sfugge all'autore che opera una fusione straordinaria fra il narrato e il paesaggio cittadino, ancora una volta elemento imprescindibile del racconto.Lo stile limpido,elegante,raffinato,la ricerca costante della parola,i dialoghi rapidi e vivaci ne accrescono visibilmente la percezione. Da collocare nella biblioteca ideale.